Quando l’edificio parla all’animo
Un incontro a Monte Verità tra Peter Zumthor e László F. Földényi, a partire dalla malinconia che attraversa lo spazio.
Nell’ambito degli Eventi letterari Monte Verità 2024, dedicati quest’anno al tema «Psicogeografie», si è tenuto l’11 aprile un dialogo inedito tra l’architetto Peter Zumthor e il filosofo e scrittore ungherese László F. Földényi. Il tema scelto per questa edizione — che indaga il legame profondo tra paesaggio e psiche umana, in omaggio al centocinquantesimo anniversario della nascita di Carl Gustav Jung — ha fatto da sfondo ideale a un incontro che ha intrecciato riflessioni su architettura, memoria e malinconia.
A dare avvio alla conversazione è stato A melankólia dicsérete (Jelenkor, 2017), libro in cui Földényi dedica un’intera sezione alla Cappella di Bruder Klaus, uno dei progetti più emblematici di Zumthor. Completata nel 2007 nei campi vicino a Mechernich, in Germania, nasce come dono spirituale da parte di una coppia di agricoltori devoti a San Nicola di Flüe, santo svizzero. La cappella si presenta come un volume monolitico, apparentemente semplice e chiuso, rivestito da una facciata in cemento grezzo punteggiata da ciottoli. Il processo costruttivo ha previsto l’uso di tronchi di legno disposti in forma di tenda, attorno ai quali è stato colato il calcestruzzo a strati. Una volta asciugato, il legno è stato bruciato, lasciando l’interno carbonizzato e ruvido, trasformando lo spazio in una cavità scura, intensa e intima1.
Durante la conferenza, Földényi ha raccontato la sua visita alla cappella in un giorno di pioggia, attraversando un prato fangoso e un terreno leggermente scosceso. In quel percorso, ha avuto l’impressione che il paesaggio stesso respirasse. Una sensazione che nasceva dal modo in cui l’edificio si stagliava nel paesaggio, distinguendosi per la sua presenza scultorea, e allo stesso tempo integrandosi nel contesto con naturalezza.
Per la prima volta, si incontrano in una conversazione pubblica l’architetto Peter Zumthor e il filosofo e scrittore László F. Földényi. Dall’incontro tra queste due personalità nasce un dialogo tra mondi solo apparentemente distanti — tra architettura e narrazione. Sin dall’inizio, i due protagonisti si rendono conto di essersi “interpellati” a vicenda, come se ciascuno avesse letto nell’animo dell’altro attraverso il suo lavoro. Ed è proprio questa parola — animo — a guidare il resto della conversazione. Partono così dalla stessa domanda, che si pongono reciprocamente: può l’architettura avere un’anima? E perché sembra che molti edifici, oggi, ne siano privi?
Zumthor ha spiegato che, nel suo processo progettuale, lavora finché qualcosa – un’intuizione, una sensazione – inizia a risuonare. A volte questa risonanza nasce dal paesaggio; altre volte da una memoria profonda, che descrive come una forma di eredità trasmessa, quasi epigenetica. Anche Földényi ha richiamato questa idea parlando della “patina” dei luoghi: le tracce lasciate da chi li ha abitati prima di noi. Ha citato La mendicante di Locarno di Heinrich von Kleist (1810), un racconto ambientato proprio nella città della conferenza, in cui una casa è segnata dalla presenza del passato. In quel caso, si tratta di un fantasma, ma Földényi chiarisce che il suo riferimento non è soprannaturale: si tratta piuttosto di una percezione sottile, legata alla stratificazione della storia nei luoghi.
Nel corso della conversazione, Földényi ha ricordato che Zumthor, a 18 anni, aveva iniziato la sua formazione come carpentiere. Uno dei suoi primi lavori fu la realizzazione di un armadio, costruito con la stessa cura su ogni lato, anche sul retro, pur sapendo che quella parte sarebbe rimasta nascosta. Questo aneddoto è diventato il punto di partenza per una riflessione condivisa sul dettaglio e sulla sua valenza etica.
Il filosofo ha evocato l’architetto ungherese Ödön Lechner, ricordando come fosse solito rifinire anche la parte più alta e invisibile delle sue coperture, perché — diceva — non ci si dovrebbe vergognare nemmeno “di fronte agli uccelli”. A questa immagine ha affiancato una riflessione di John Ruskin che, ne Le pietre di Venezia, scriveva: “Là dove l’occhio dell’uomo non può vedere, l’occhio di Dio vede”2.
In entrambi i casi, l’attenzione al dettaglio diventa una questione etica, un gesto che dà forma a ciò che resta. Il dettaglio, infatti, è ciò che sopravvive al tempo: una memoria costruita.
Le emozioni che guidano Peter Zumthor nel progetto sembrano muoversi nella stessa direzione. Ha descritto il proprio processo creativo come un percorso segnato da impressioni difficili da definire, in cui la malinconia gioca un ruolo fondamentale. È da queste sensazioni, ha spiegato, che nasce la qualità più profonda del progetto: non visibile a prima vista, ma percepibile nella cura con cui un edificio riesce a restituire qualcosa di intimo e duraturo.
Földényi, da parte sua, ha definito la malinconia non come tristezza, ma come uno sguardo capace di riconoscere la fine, la fragilità, ciò che sfugge alla visione razionale. Costruire, ha osservato, implica sempre anche un gesto di perdita. E proprio per questo, ogni intervento nello spazio porta con sé una responsabilità: anche un piccolo cambiamento può trasformare profondamente un luogo.
È forse da questa responsabilità che nasce la possibilità di un’anima nell’architettura. Perché un edificio, per avere forza, deve saper custodire ciò che sfugge: il tempo, le emozioni, la memoria. Deve contenere, in qualche forma, una traccia di malinconia.
Note
1. Peter Zumthor, Bruder Klaus Field Chapel, in: ArchDaily, 19 febbraio 2011. Disponibile online: https://www.archdaily.com/106352/bruder-klaus-field-chapel-peter-zumthor
2. Ruskin, John. The Stones of Venice. London: Smith, Elder & Co., 1851–1853